venerdì 8 dicembre 2017

Storia di una bicicletta (quasi) rubata


Nel piccolo paesino di San Stino tutto trascorreva in modo tranquillo. Era una giornata di inizio settembre e mi stavo placidamente rilassando in camera mia, sul letto, con in mano il mio telefono.
Pensavo che tutto sarebbe trascorso tranquillamente... e invece no.                                        Mia mamma mi chiamò dal salotto, probabilmente perché doveva rimproverarmi per qualche malanno commesso in sala o altrove.
Ma non fu così: stava piegando la tovaglia in cucina e aveva un'aria parecchio strana. La guardai tranquillamente e le chiesi: "Che c'è?" come se fosse tutto normale.
"Ieri, dove hai lasciato la bici dopo aver fatto il tuo giretto?" mi domandò. 
Me lo ricordavo perfettamente: il giorno prima ero in casa a non fare assolutamente niente e, per prendere una boccata d'aria, avevo deciso di andare a fare un giro in bicicletta. Era un'uscita molto ristretta: mi ero limitato a recarmi all'oratorio passando per il campo sportivo dietro casa mia, facendo una strada che non percorrevo mai, ma che avevo seguito per il solo piacere di farlo.                           
Arrivato a casa, andai nel garage dietro la mia abitazione e la misi vicino alla porta che immetteva nelle cantine, dove sono posti tutti i meccanismi per far funzionare l'ascensore. Non avendo un lucchetto e non volendo suonare il citofono per chiamare mia madre e farle aprire il cancello del nostro "parcheggio privato", la posai lì sotto, dove la appoggio tutt’oggi.
Le risposi: "Dove la metto sempre" con un tono piuttosto seccato perché mi stava chiedendo una cosa molto stupida.
Non ero ancora a conoscenza della disavventura accaduta alla mia cara e vecchia bici.        "Perché, sai, stavo sbattendo la tovaglia e non l'ho vista" mi rispose preoccupata. 
"Ma come?" risposi, mentre mi recavo nel balconcino per verificare la sua affermazione.        Era vero, c'era solo la bicicletta di Michele nello scomparto. La cosa, però, non mi dette fastidio. Anzi, ero quasi rallegrato: il mio mezzo di trasporto a due ruote era piccolo e vecchio, di un colore rosso che mi ripugnava. Si aggiunga il fatto che, se me l'avessero rubata, ciò avrebbe significato che me ne sarei presa una nuova, una bici alta e con un cestino che desideravo moltissimo.
Tornando da lei non sapevo cosa dirle. Non potevo mica risponderle; "E vai! Finalmente avrò una bici nuova e che non faccia schifo!". No. Mi limitai ad aggiungere: "Allora me l'avranno rubata quando sono entrato in casa". Però me ne andai rallegrato: a breve avrei avuto una bici nuova di zecca che avrei usato molto di più rispetto alla precedente.
Ma non andò in questo modo, per niente.
Dopo qualche oretta, mentre ero alla scrivania col computer e mi rilassavo con la mia serie tv preferita, entrò mia madre: "Filippo, ti hanno ritrovato la bici!" disse guardando il suo telefono e me lo mise davanti alla faccia. 
Ed eccola lì a terra, la mia bicicletta, nella stradina dietro a casa mia che, strana coincidenza, avevo percorso il giorno prima.
"Davvero?" risposi. Era una domanda retorica: la vedevo con i miei occhi, mentre il mio sogno di avere una bici scintillante col cestino si infrangeva.
 "Sì, e quando arriva il papà la vai a prendere" ordinò.
Poco dopo mio padre rientrò a casa dal lavoro e ci recammo direttamente dai carabinieri.      Non ero mai entrato in quella che pensavo fosse una centrale di polizia: aveva un corridoio piccolo e stretto, con qualche sedia blu all'angolo a sinistra della porta. Andati più avanti vedemmo tre carabinieri, due uomini e una donna, che ci fissavano con un sorriso alquanto terrificante.
"Salve" cominciò mio padre "siamo venuti a ritirare una bicicletta rossa".
L'agente donna ci fece qualche domanda e poco dopo ci restituì la bicicletta. L'ultima cosa che ci disse era che se qualcuno fosse giunto per effettuare la denuncia di furto di una bicicletta, l'avremmo dovuta restituire subito.
Il che era impossibile, dato che era davvero di mia proprietà. Purtroppo.
Usciti dalla centrale, mio padre mi disse di andare a casa, mentre lui si sarebbe fermato a prendere le sigarette.
Così mi avviai verso casa. Durante il corto tragitto accesi il telefono e vidi dei messaggi, uno dei quali proveniva da mia zia, sempre aggiornata sui fatti del paese tramite Facebook e il Comune, luogo in cui lavorava.
Mi aveva mandato la stessa immagine che mi aveva fatto vedere mia madre dal suo cellulare e che ritraeva la mia bici, con sotto la scritta: "Ciao, questa è la tua bicicletta?".
Non mi ero accorto che il mio sogno di avere una bici più bella e moderna si fosse infranto molto prima che me l'avesse detto mia mamma.

Filippo Sandrin IIA   

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