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mercoledì 8 maggio 2019

Mia nonna Stella...



Mia nonna Stella mi ha raccontato che quando era piccola, fino a quando era una giovane sposa, i pasti non erano tanto vari, perché non c’era granché: mangiavano sempre fagioli e “muset” (cotechino) con la polenta. 
Per primi mangiavano gli uomini e i bambini, e per ultime le donne.
Si alzavano alle 3 di mattina per andare a tagliare “la spagna” (erba medica), per far foraggio per gli animali e usavano il “falzin”*: un attrezzo con un lungo manico di legno e una lama molto tagliente. Poi verso le 5 o le 6 del mattino tornavano a casa per dar da mangiare alle mucche, ai cavalli, ai maiali e alle galline. 
Per lavorare la terra usavano i buoi.
Abitavano lontano dal paese, ma lo raggiungevano sempre a piedi perché non avevano biciclette.
Per lavare i panni usavano la cenere della stufa e lavavano tutto a mano dentro il fiume.
Indossavano gli abiti dismessi delle famiglie ricche: mia nonna si teneva ciò che le andava bene e il resto lo dava alle altre famiglie.
Come calzature avevano solo gli zoccoli, d’estate e anche d’inverno.

Racconto della nonna di Sharon Gusso


lavoro ispirato dal testo "Se magnea tuti da na padea - Mangiavamo tutti da un'unica pentola : storie di vita contadina tra le foci di Piave e Livenza intorno alla metà del Novecento" di Andreetta Dino

*falcetto

lunedì 6 maggio 2019

La maestra Lisa Davanzo (1917-2006)



Nel 1940 l’Italia entra nel Secondo Conflitto Mondiale e Lisa inizia la sua carriera di insegnante a Ca' Corniani, facendo da maestra ai contadini del posto. È lei a raccontare nell'introduzione del suo libro “ossi de persego” come Romiati avesse a cuore la cultura di mezzadri e braccianti per i quali aveva creato, all'interno della sua azienda agricola, una scuola serale a titolo gratuito allo scopo di alfabetizzarli.

“Mi fae a maestra
E in bicicleta
Vae de qua e de à:
a Mussetta Castaldia Ca’ Corniani”

Lisa soggiornava per tutta la settimana nella casa delle insegnanti della scuola elementare della stessa Agenzia, e tornava a casa il sabato.

In quella zona operò la “Missione Nelson”, che in Valle Altanea aveva il compito di far imbarcare sui sottomarini che arrivavano a Porto Santa Margherita i prigionieri degli Alleati. L’ultimo tratto, lungo il Canale Brian, lo facevano i gommoni trasportatori, con la connivenza e la collaborazione di Giorgio Romiati, che aveva in casa il Comando Tedesco di zona e perciò rischiava la vita.

Se volete sapere qualcosa di più sulla maestra Lisa Davanzo cliccate qui

sabato 4 maggio 2019

La figura di Giorgio Romiati

“la palude è sempre apparsa nei secoli simbolo di morte. Per noi agricoltori ha però conservato l’insuperabile fascino delle sue attrattive, dell’immensità dei suoi orizzonti, dello splendore delle sue albe e dei suoi fiammeggianti tramonti, dello stesso scatenarsi incontenibile delle bufere, delle stupende e commoventi manifestazioni biologiche tra gli specchi d’acqua e i canneti brulicanti di selvaggina e guizzanti di pesci. Fascino vivificato e accresciuto in quest’ultimo sessantennio nell'ancor maggiore attrattiva della bonifica nelle sue alte prospettive di redenzione umana e di sviluppo agricolo…”

Parole di Giorgio Romiati (dal libro “il fiume Livenza” di Giuseppe Marson)



Nominato cavaliere del lavoro nel 1952 per il settore Agricoltura, Giorgio Romiati era nato a Padova nel 1876 dove è stato sepolto dopo la morte avvenuta nel 1967.
Dopo gli studi di medicina, nel 1897 egli assunse la direzione della Azienda agricola di San Giorgio, 3000 ettari completamente paludosi, alla foce del Livenza, che bonificò.
Durante il primo conflitto mondiale alternò il servizio medico in prima linea con audaci azioni belliche. Nel corso del secondo, invece, fu alla direzione dell’Ospedale militare di Pordenone, dove salvò dalla deportazione molti soldati e ufficiali. Apportò inoltre la sua competenza in numerose amministrazioni e istituzioni.
Dopo la prima guerra mondiale riprese, con i fratelli, l’attività interrotta e la estese a tutta la proprietà. Si dedicò intensamente ai consorzi di Bonifica del Basso Piave.
L’intero comprensorio fu così dotato, oltre che di modernissimi impianti di prosciugamento, di strade, linee elettriche, impianti di irrigazione, impianti sanitari…
Benemerita fu la sua azione contro la malaria. All'opera di bonifica associò la difesa boschiva e il riscatto sociale dei contadini. Per tutto ciò ricevette dall'Università di Padova la laurea honoris causa in scienze agrarie.

Il XX secolo è anche per Caorle il secolo delle grandi guerre. In particolare si infiamma la vita lagunare dopo la disfatta di Caporetto, diventando territorio strategico per il fronte che combatteva sul Piave. Nell'ultima offensiva del 1918 anche i caorlotti si fecero onore, tanto che il cittadino Giorgio Romiati fondò l’associazione Giovane Italia, insignita della medaglia d’argento al valor militare dopo la vittoria del 4 novembre.
Non a caso una delle sezioni del Battaglione San Marco si chiamava proprio “Battaglione Caorle” e, insieme col Battaglione Bafile, ebbe un ruolo importante nella battaglia di liberazione sul Piave.

Durante il secondo conflitto grave fu il peso dell’occupazione tedesca, che arrivò a minacciare di allargare, per motivi strategici, tutto il litorale per una profondità di 10 chilometri; l’allarme rientrò inaspettatamente e ancor oggi i caorlotti, a memoria di un voto emesso il 2 gennaio 1944, attribuiscono il merito di ciò all'intercessione della loro Madonnina del Mare.

 dal testo "Se magnea tuti da na padea - Mangiavamo tutti da un'unica pentola : storie di vita contadina tra le foci di Piave e Livenza intorno alla metà del Novecento" di Andreetta Dino

giovedì 2 maggio 2019

Quando i miei nonni erano giovani...

Ciao, io sono Valentina. Sono nata il 19 ottobre 2006. I miei nonni, Caterina e Giancarlo, hanno rispettivamente 82 e 84 anni: mia nonna è nata il 30 gennaio 1937 e mio nonno è nato il 27 dicembre 1934.
Per una ricerca scolastica ho deciso, sulla scia dei loro racconti,  di fargli l’intervista che segue.
Questa intervista mi ha permesso di conoscere un po’ di più il loro passato e di capire quanto fosse dura la vita quando loro erano giovani.

*monega

Valentina: Quando eravate piccoli dove abitavate?
Caterina: Io abitavo a Villanova di Motta di Livenza, poi a tre anni sono andata ad abitare a Sant’Anastasio di Cessalto. In casa c’eravamo io, mio papà, mia mamma e mia sorella.
Giancarlo: Abitavo a Ca’ Cottoni con altre ventiquattro persone. Eravamo otto figli: tre femmine, cinque maschi. Abitavamo con due fratelli di mio papà; un di loro aveva nove figli: sette femmine e due maschi.

Valentina: Da piccoli cosa facevate?
Caterina: Cucivo. A 6 anni mia mamma mi ha insegnato a cucire. A 10 anni una signora si complimentò con me per la mia bravura…
Giancarlo: A 8 anni andavo già ad arare la terra con i buoi. Da adulto mi alzavo a mezzanotte per andare a lavorare la terra…avevamo 24 ettari. Andavamo ad arare con sei buoi messi a coppie. I buoi, che avevano tutti un nome proprio, erano così tanto addestrati che gli davamo indicazioni come “gira a destra” o “ gira a sinistra” e loro eseguivano.

Valentina: E nel tempo libero?
Giancarlo: Giocavamo a nascondino e a “vivi e morti”: si mettevano in piedi delle pietre e con un sasso le si colpiva, le pietre che cadevano erano “i morti”, quelle che rimanevano in piedi “i vivi”. Oppure si giocava con modellini di legno, di ferro o a calcio con un pallone fatto di carta e stracci.

Valentina: Come affrontavate l’inverno senza il riscaldamento?
Giancarlo: Per riscaldarci andavamo in stalla, ci riscaldava il calore delle mucche. In stalla c’erano una trentina di bestie: mucche, buoi e vitelli. Si utilizzava anche la “monega”*.
Caterina: Dal momento che non avevo bestiame, a casa mia ci si scaldava con la stufa a legna, oppure andavo dalle famiglie che avevano il bestiame… anche per passare un po’ il tempo insieme. Mia mamma scaldava il letto, con la “monega”, oppure metteva un mattone, prima messo nella stufa, e poi avvolto in alcune maglie vecchie.

Valentina: E come facevate per avere la luce?
Caterina: Si utilizzava il “carburo” (lampada ad acetilene) e l’olio.

Valentina: Come facevate senza servizi igienici?
Giancarlo: Si faceva “tutto” per terra. Fuori casa c’era un buco, circondato da un muro di canne e per pulirci usavamo l’erba e  “i scartossi” (foglie secche) delle pannocchie.

Valentina: Come facevate per avere l’acqua?
Caterina: Andavo a prendere l’acqua al pozzo e se ci si doveva fare il bagno in quella stessa acqua ci si lavava in tre.
Giancarlo: In estate si andava a lavarsi nel canale. D’inverno avevamo una pompa, ma non era solo per noi, serviva anche per dare da bere al bestiame.

Valentina: Dove facevate la spesa?
Caterina: Andavamo in un piccolo negozio detto “casoin”, dove trovavamo di tutto.
Giancarlo: …per comprare le sigarette rubavo le uova di gallina: tre uova per tre sigarette.

Valentina: Cosa vi ricordate della fine della Seconda Guerra Mondiale?
Giancarlo: Avevo 11 anni. Ricordo che il cognato di mia sorella è stato torturato dai tedeschi (gli hanno tolto le unghie), poi lo hanno legato e buttato nel fiume, perché i tedeschi pensavano che lui fosse un partigiano.
Caterina: Avevo 8 anni, per andare a scuola, dovevo fare 4 km a piedi, attraversando i fossi… se quando arrivavamo avevamo le mani sporche la maestra ci picchiava le mani con una bacchetta. Sentivamo e vedevamo i bombardamenti e spesso succedeva che di notte i tedeschi o i partigiani chiedessero da mangiare. Mia mamma gli faceva la polenta.

Valentina: Come vi siete conosciuti?
Caterina: Ci siamo conosciuti perché Giancarlo è venuto a casa mia a fare dei lavori (faceva anche il muratore). Siamo stati fidanzati tre mesi e subito dopo ci siamo sposati.
Giancarlo:…ma non perché Caterina fosse incinta. Io avevo 40 anni e Caterina 37.

Intervista di Valentina Gaetani IIAL

lavoro ispirato dal testo "Se magnea tuti da na padea - Mangiavamo tutti da un'unica pentola : storie di vita contadina tra le foci di Piave e Livenza intorno alla metà del Novecento" di Andreetta Dino



* Ingombrante oggetto in legno di forma ellittica utilizzato per riscaldare il letto; entro un telaio esteso da archi atti a tenere sollevate le lenzuola si trova una base di metallo, sulla quale si poggia un contenitore per le braci opportunamente prelevate dalla stufa.

martedì 9 aprile 2019

Giocando con il nostro dialetto...



El saez el piansea
parché tutti
quealtri alberi
i vea xa i buti,
e lu no!

Il salice piangeva
perché tutti
gli altri alberi
avevano già le gemme,
e lui no!

Giorgia Moro 



Me fradel se gha morsegà i lavari
da drio a palada:
ghe go dat un scufiot,
parché el stachea bacheti dal saez.

Mio fratello si mordeva le labbra
dietro la siepe:
gli ho dato uno schiaffo
perché staccava i rami dal salice.


Emma Calcinotto, Marco Tullio, Nicolas Bottosso




Coi bacheti cascadi dae palade
me tache un bel foghet
par scaldarme e man

Con i rami caduti dalle siepi
mi accendo un bel fuocherello
per scaldarmi le mani


Alice Donè



A fameja a xe importante
parchè a xe cara come l'oro
ma no tuti i ga sto dono

La famiglia è importante
perché è preziosa come l'oro
ma non tutti hanno questo dono

Matilde Salvador



Il nostro poeta: Romano Pascutto (1909-1982)


C’era una volta un uomo di nome Romano.
Romano era nato in una calda giornata di Luglio, in un piccolo paese sulle sponde del fiume Livenza.
Lui amava tanto la sua terra quanto odiava la prepotenza e l’ingiustizia. Fu così che, ancora studente, disse apertamente “no” al regime che faceva tacere chi gli era contro.
Per questo, a vent'anni fu costretto a raggiungere il fratello Sante, emigrato in Libia.
Fu allora che promise a se stesso che avrebbe lottato senza sosta per la libertà e per un mondo migliore. Tale idea mosse il cuore di molti, tanto che questi cuori si organizzarono per Resistere.
Tornato al paese nel 1942, Romano partecipo’ attivamente alla Resistenza, finendo in carcere.
Tanti luoghi qui attorno ci ricordano che il regime non era, di certo, tenero con chi resisteva: lo sanno le piazze, lo sanno gli alberi e anche i muri.
Arrivò il 1945 e la tanto sospirata Liberazione.
Romano era finalmente libero e continuò a tenere fede alla sua promessa, si impegnò, a oltranza, per migliorare il mondo, partendo proprio dal suo amato paese.
Lui diventò Sindaco di San Stino di Livenza, e fu anche il poeta che ne elevò il dialetto a lingua letteraria, non dimenticando mai l’impegno civile.
Romano scrisse della sua gente: gente di campagna che si affacciava alla ripresa del dopoguerra, tra sfruttamento e grandi valori del mondo contadino, gente che viveva, che soffriva, che gioiva, che moriva, lasciando in eredità un solo grande insegnamento, si piange da soli e si ride in compagnia.

Eredità
I me veci no m'ha lassà nissuna eredità.
I m'ha insegnà 'na roba che no bute via:
a pianzer da sol e a rider in compagnia.

(Romano Pascutto, L'acqua, la piera, la tera)

lunedì 3 dicembre 2018

Livenza


A ti che te sa essar
profonda come un sienzio
tenebrosa come el caigo
calma come un pensier
limpida de verità.

A te che sai essere
 profonda come silenzio, 
tenebrosa come nebbia,
calma come pensiero,
limpida di verità.

IIAL

martedì 16 febbraio 2016

Romano Pascutto: 'st'acqua


'ST'ACQUA
Gera squasi scuro e sora 'st'acqua
passava i barconi carghi de strame
che i omeni tirava gobi da la riva
come se i se tirasse drio la bara.
Cossa resta de tanta fadiga granda,
tante lagreme e besteme fracade zò
par companasego co poenta amara?
Un fià de luna zala apena speciada
e po', varda, po' gnanca pi' quela
parchè, rufiana, sparisse anca ela.
Romano Pascutto (da l'acqua, la piera, la tera)


QUEST'ACQUA
Era quasi buio e sopra quest'acqua passavano i barconi carichi di strame che gli uomini tiravano gobbi dalla riva come se si trascinassero dietro la bara. Che cosa resta di tanta fatica, tante lacrime e bestemmie ingoiate per companatico con la polenta amara? Un po' di luna gialla appena specchiata e poi, guarda, poi nemmeno quella perchè, ruffiana, sparisce anche lei.



Questa poesia ci ha tanto colpito, perché parla del fiume che scorre vicino alla nostra scuola.
Giro Giacomo, Lorenzo Salgarella (IA)

Romano Pascutto è riuscito, in pochi versi, a raccontare la vita di queste persone che si guadagnavano da vivere  con il Livenza.
Marsonetto Chiara e Zlotea Nicoleta (IA)

Questa poesia parla del nostro paese, quando era povero e gli uomini facevano lavori duri, come tirare i barconi verso riva, senza avere un'adeguata ricompensa. L'unica felicità era lo spettacolo del riflesso della luna sull'acqua, ma anche quello poi spariva.
Sabrina Lazzarin, Daniele Zanutto, Chiara Bottosso (IA)

Nonostante il tema molto serio, la poesia ci è risultata simpatica per l'uso del dialetto e per il fatto di aver dato della caratteristiche umane alla luna, che viene definita "ruffiana".
Giulia Buoso, Alessia Zago (IA)