venerdì 8 dicembre 2017

Le mie cadute da cavallo


La cosa più brutta, quando cadi da cavallo, non è il dolore che provi fisicamente, ma il dispiacere che avverti vedendo il tuo cavallo che ti scaraventa per terra perché ha paura di te.
Da giovane, nella mia vita di amazzone, ho fatto parecchie cadute da cavallo. Alcune erano causate da me, mentre il cavallo non era colpevole, altre erano dovute al cavallo che si comportava come un pazzo scatenato. 
La prima caduta della mia vita la feci da un asino, in un allevamento di montagna, dove io e la mia famiglia eravamo andati a pranzo. L'animale si chiamava Luiso, aveva il manto pezzato bianco e marrone. Lo cavalcai senza sella e fu proprio per quello che caddi. Non so come, l'asino si spaventò, partì in un galoppo velocissimo e io finii per terra. Poco divertente dato che, tutto sommato, avrebbe potuto anche calpestarmi.
La seconda caduta della mia vita la feci da un pony di nome Nino, anche lui pezzato. 
All'improvviso sgroppò e quindi mi scrollò di sella. 
In seguito, per circa cinque anni, non mi capitò più di risalire a cavallo due o più volte, di ritrovarmi piena di polvere e magari con un bel pestone... questo fino a quando non cambiai maneggio. 
Era il 23 aprile 2017 quando andai a fare l'esame pratico di lavoro in piano. Quella volta montai un purosangue arabo di nome Argento, ex campione di corse. Iniziai a pulirlo e in seguito a sellarlo, per poi montarlo ed iniziare l'esame d'ammissione. Andò tutto bene, ma la volta dopo iniziò il vero lavoro. La mia allenatrice mi fece galoppare senza staffe e dopo un po' mi fece superare un oxer di C90, sempre senza staffe. Feci un tale volo che, se fossi salita tre centimetri più in alto, avrei potuto togliere le ragnatele dal soffitto. Strano ma vero, atterrai in piedi. 
Da quel giorno non saltai mai un ostacolo senza staffe. 
Un'altra delle tante cadute da cavallo la feci mentre cavalcavo Vulivia, una olandese di 1.80 centimetri circa. Stavo galoppando per saltare un verticale di B100, mi tuffai prima di lei e lei si bloccò facendomi fare una giravolta in avanti e in quell'occasione sì che mi feci male alla schiena.
Le cadute successive, e anche quelle più dolorose, le feci da Jack Avril D'erminè, un sella francese di vent'anni. Era un cavallo molto allegro, che aveva partecipato a molte edizioni nazionali ed internazionali ed era un fenomeno. E, come ogni fenomeno che si rispetti, qualche volta si dimostrava imprevedibile e quindi sgroppava. Stavo procedendo tranquillamente quando tirò una sgroppata e mi scaraventò a terra. Non mi calpestò per miracolo, ma mi feci comunque male al collo. Risalii: iniziai nuovamente a galoppare, feci due giri di campo e finii di nuovo per terra. Riuscii ad alzarmi per miracolo. Montai per la millesima volta e, per fortuna, andò tutto bene. 
Ho imparato molte cose cadendo da cavallo, una delle tante è che bisogna sempre rispettare il nostro amico a quattro zampe, in qualsiasi momento; che sia vecchio o giovane non conta, poiché esso è sempre il tuo cavallo.

Battistin  Anna  IIA     

Storia di una bicicletta (quasi) rubata


Nel piccolo paesino di San Stino tutto trascorreva in modo tranquillo. Era una giornata di inizio settembre e mi stavo placidamente rilassando in camera mia, sul letto, con in mano il mio telefono.
Pensavo che tutto sarebbe trascorso tranquillamente... e invece no.                                        Mia mamma mi chiamò dal salotto, probabilmente perché doveva rimproverarmi per qualche malanno commesso in sala o altrove.
Ma non fu così: stava piegando la tovaglia in cucina e aveva un'aria parecchio strana. La guardai tranquillamente e le chiesi: "Che c'è?" come se fosse tutto normale.
"Ieri, dove hai lasciato la bici dopo aver fatto il tuo giretto?" mi domandò. 
Me lo ricordavo perfettamente: il giorno prima ero in casa a non fare assolutamente niente e, per prendere una boccata d'aria, avevo deciso di andare a fare un giro in bicicletta. Era un'uscita molto ristretta: mi ero limitato a recarmi all'oratorio passando per il campo sportivo dietro casa mia, facendo una strada che non percorrevo mai, ma che avevo seguito per il solo piacere di farlo.                           
Arrivato a casa, andai nel garage dietro la mia abitazione e la misi vicino alla porta che immetteva nelle cantine, dove sono posti tutti i meccanismi per far funzionare l'ascensore. Non avendo un lucchetto e non volendo suonare il citofono per chiamare mia madre e farle aprire il cancello del nostro "parcheggio privato", la posai lì sotto, dove la appoggio tutt’oggi.
Le risposi: "Dove la metto sempre" con un tono piuttosto seccato perché mi stava chiedendo una cosa molto stupida.
Non ero ancora a conoscenza della disavventura accaduta alla mia cara e vecchia bici.        "Perché, sai, stavo sbattendo la tovaglia e non l'ho vista" mi rispose preoccupata. 
"Ma come?" risposi, mentre mi recavo nel balconcino per verificare la sua affermazione.        Era vero, c'era solo la bicicletta di Michele nello scomparto. La cosa, però, non mi dette fastidio. Anzi, ero quasi rallegrato: il mio mezzo di trasporto a due ruote era piccolo e vecchio, di un colore rosso che mi ripugnava. Si aggiunga il fatto che, se me l'avessero rubata, ciò avrebbe significato che me ne sarei presa una nuova, una bici alta e con un cestino che desideravo moltissimo.
Tornando da lei non sapevo cosa dirle. Non potevo mica risponderle; "E vai! Finalmente avrò una bici nuova e che non faccia schifo!". No. Mi limitai ad aggiungere: "Allora me l'avranno rubata quando sono entrato in casa". Però me ne andai rallegrato: a breve avrei avuto una bici nuova di zecca che avrei usato molto di più rispetto alla precedente.
Ma non andò in questo modo, per niente.
Dopo qualche oretta, mentre ero alla scrivania col computer e mi rilassavo con la mia serie tv preferita, entrò mia madre: "Filippo, ti hanno ritrovato la bici!" disse guardando il suo telefono e me lo mise davanti alla faccia. 
Ed eccola lì a terra, la mia bicicletta, nella stradina dietro a casa mia che, strana coincidenza, avevo percorso il giorno prima.
"Davvero?" risposi. Era una domanda retorica: la vedevo con i miei occhi, mentre il mio sogno di avere una bici scintillante col cestino si infrangeva.
 "Sì, e quando arriva il papà la vai a prendere" ordinò.
Poco dopo mio padre rientrò a casa dal lavoro e ci recammo direttamente dai carabinieri.      Non ero mai entrato in quella che pensavo fosse una centrale di polizia: aveva un corridoio piccolo e stretto, con qualche sedia blu all'angolo a sinistra della porta. Andati più avanti vedemmo tre carabinieri, due uomini e una donna, che ci fissavano con un sorriso alquanto terrificante.
"Salve" cominciò mio padre "siamo venuti a ritirare una bicicletta rossa".
L'agente donna ci fece qualche domanda e poco dopo ci restituì la bicicletta. L'ultima cosa che ci disse era che se qualcuno fosse giunto per effettuare la denuncia di furto di una bicicletta, l'avremmo dovuta restituire subito.
Il che era impossibile, dato che era davvero di mia proprietà. Purtroppo.
Usciti dalla centrale, mio padre mi disse di andare a casa, mentre lui si sarebbe fermato a prendere le sigarette.
Così mi avviai verso casa. Durante il corto tragitto accesi il telefono e vidi dei messaggi, uno dei quali proveniva da mia zia, sempre aggiornata sui fatti del paese tramite Facebook e il Comune, luogo in cui lavorava.
Mi aveva mandato la stessa immagine che mi aveva fatto vedere mia madre dal suo cellulare e che ritraeva la mia bici, con sotto la scritta: "Ciao, questa è la tua bicicletta?".
Non mi ero accorto che il mio sogno di avere una bici più bella e moderna si fosse infranto molto prima che me l'avesse detto mia mamma.

Filippo Sandrin IIA