martedì 28 gennaio 2020

Il nostro incontro con Ennio Trivellin, sopravvissuto al campo di concentramento di Mauthausen


Ennio Trivellin venne arrestato a sedici anni insieme a due compagni di classe perché stavano organizzando la lotta armata contro i nazifascisti (avevano un piccolo arsenale): erano partigiani.
Samuel Carta

Venne condotto prima in una specie di carcere delle SS in un palazzo veronese, poi venne deportato nel campo di concentramento di Bolzano e infine  a Mauthausen (Austria).
Carolina Ronchiato

Lui e gli altri prigionieri fecero il viaggio in carri bestiame, per diversi giorni, senza acqua, senza cibo, senza servizi igienici.
Gianmaria Presottin

Durante il tragitto due uomini riuscirono a scappare facendo un buco sul pavimento del carro... Ennio aveva pensato di scappare dallo stesso foro, ma dal momento che anche suo padre era in mano ai tedeschi e avrebbero potuto ucciderlo per questa sua fuga, rinunciò.
Irene Dal Tin

Ennio rimase a Mauthausen fino a quando il campo venne liberato dagli Americani, il 5 maggio 1945 (fu l'ultimo campo ad essere liberato).
Molin Lorenzo

I suoi compagni non tornarono mai più.
Karen Simondo 



Oggi Ennio (a 92 anni) ci ha raccontato "la vita" nel campo di Mauthausen.
Eleonora Brando

Dopo averlo ascoltato, ci siamo fatti un po' più un'idea di cosa possano esser stati realmente i campi di concentramento.
Silvia Fantinello

All'arrivo a Mauthausen i prigionieri venivano spogliati, gli veniva dato un pigiama a righe, degli zoccoli e venivano rasati (gli lasciavano una striscia di capelli più lunghi in mezzo alla testa per renderli subito riconoscibili in caso di fuga).
Lì erano destinati a morire di fatica, di fame e di sete...  
I deportati dormivano in baracche sovraffollate, piene di pidocchi.
Valentina Gaetani

I prigionieri di Mauthausen dovevano salire un'irregolare scalinata (186 scalini) con dei pesi sulla schiena... in molti non ci riuscivano; a volte erano inseguiti da cani che li sbranavano.
Tommaso Bortoluzzo

Nel campo il nome e cognome dei deportati divenne un numero: le persone non erano più persone, erano "pezzi".
Lodovico Vio

All'appello il numero veniva detto in tedesco, chi non rispondeva immediatamente veniva ucciso con un colpo di pistola alla nuca.
Sara Fantin



Ennio fin dal primo giorno di prigionia continuava a dirsi "Io ce la farò! Sopravviverò! Tornerò a casa!"
Manuel Roman 

Quando sono arrivati gli Americani, Ennio si è tolto il pigiama... era felicissimo, ma è stato ancora più felice quando, una volta, tornato a casa ha scoperto che tutta la sua famiglia era sopravvissuta.
Giosuè Carbonera

L'esperienza di Ennio è stata impressionante, assurda, incredibile...
Mohamed Mtira

...paurosa, triste, potente.
Sharon Gusso

Non dimenticheremo mai quello che ci ha raccontato oggi il signor Ennio!
Aurora Valeri

Ci ha tanto colpito la forza di questa sua testimonianza. Grazie Ennio!
Thomas Freguia 

Un grazie di cuore a Stella Nosella e la sua bambina dal nastro rosso, all'ANED, al Centro Polifunzionale Ca' Corniani, alla Casa Editrice L'orto della cultura, all'Associazione Peter Pan che hanno reso possibile questo importante incontro.

mercoledì 22 gennaio 2020

In ricordo della giovane tedesca di origine ebraica Anna Frank (1929 Francoforte sul Meno - 1945 Campo di concentramento di Bergen-Belsen)

Anna è il simbolo del ricordo. 
Il suo diario è uno dei libri più letti al mondo.

La famiglia di Anna, quando i nazisti presero il potere, dovette trasferirsi dalla Germania ad Amsterdam in Olanda.
Presto Anna, a causa delle nuove leggi sulla razza, non poté più frequentare la scuola o andare in bicicletta. Anche lei, come tutti gli altri ebrei, venne obbligata a portare sui vestiti una stella di stoffa gialla come segno di riconoscimento.
Il padre di Anna si accordò con alcuni operai della sua fabbrica affinché gli portassero i pasti al rifugio dove si nascose con la sua famiglia, quando iniziarono le deportazioni degli ebrei.
Anna sognava di fare la scrittrice; per il suo tredicesimo compleanno le avevano regalato un diario: per gli oltre due anni che rimase nascosta, lei annotò i suoi sentimenti e pensieri in quel diario.
Sfortunatamente la polizia nazista scoprì Anna e la sua famiglia: vennero deportati in campo di concentramento, dove Anna morì di tifo alcuni mesi più tardi.

Mohamed Mtira e Gioia Zia (IIIAL)


venerdì 10 gennaio 2020

Furto al museo


La zona dedicata all'arte del museo era chiusa. 
Era stato rubato nella notte il prezioso quadro di Van Gogh in mostra a Milano.
Perissinotto Beatrice, trentacinque anni, alta 1,66 metri, occhi color nocciola e capelli a caschetto castani, nonché nota investigatrice, era già al lavoro. 
Erano già stati ritrovati alcuni indizi: un guanto grande e blu, una rosa rossa, un biglietto un gessetto bianco e una gomma da masticare, masticata appiccicata al biglietto. Sul biglietto c’era scritto in penna verde “da qui al museo, dieci minuti e sette secondi (da fuori dal cancello)”. Arrivò la segretaria del museo: “Trovato nulla?”, chiese. Beatrice mostrò i quattro oggetti. “Oh!”, ribatté la segretaria. “Il direttore è molto preoccupato, quel quadro vale milioni”. “Lo so”, disse Beatrice secca.
Arrivò un artista molto giovane che frequentava spesso il museo in cerca di ispirazione, il suo nome era Federico “So che quel quadro era molto ammirato da un signore coi capelli neri. Ma non aveva l’aria di essere un ladro.” Mmh” disse Beatrice. Detto questo uscì, camminò svelta verso una casa.
Potrebbe sembrare incredibile, ma in quella zona di Milano c’erano solo due signori coi capelli neri: un lavoratore on-line che usciva di casa solo per ritirare la posta e il postino, che era stato molte volte al museo. Beatrice vide il postino nel suo giardino mentre tagliava l’erba. “Buongiorno” disse Beatrice “Buongiorno!” salutò caloroso il postino. “Come sta?” chiese il postino “Bene, la ringrazio. Sono in servizio, hai saputo del furto…” “ …Al museo? Ma come fare a non saperlo! Ne parlano da ore. Nei pub soprattutto, sembra che non parlino di altro!” 
“Vorrei farle qualche domandina.” Il postino rimase di sasso.
“Cos'ha fatto la notte scorsa?” chiese Beatrice. “Ho dormito nel mio letto, mi sono alzato alle due perché mia figlia piangeva e le ho dato un biberon di latte. Alle cinque e mezza ho cominciato a consegnare le lettere.” Disse lui onesto. “Di quanti centimetri è il quadro?” “Non ne ho idea…” “Con che tecnica è stato dipinto?” “Credo a olio o…” “Va bene può bastare. Posso perquisire un minutino la casa?”
A mezzogiorno e mezzo il postino era stato dichiarato innocente. Beatrice camminò in giro per le strade, stando attenta a chi indossava guanti, ai giardini con rose rosse, a chi masticava gomme… 
Era inverno, alle quattro iniziava a fare buio, ma alle cinque Beatrice era ancora in giro. Poi le venne in mente il biglietto:“da qui al museo, dieci minuti e sette secondi.( da fuori dal cancello)”. Beatrice andò a casa, prese un cronometro e dal museo percorse a piedi camminando diverse vie, fermandosi ogni volta a dieci minuti e sette secondi. Non si fermava mai in un punto con un cancello, si fermava o vicino a un semaforo, o in una curva, in un piccolo parcheggio… erano quasi le otto, faceva molto freddo, provò un'altra via. Dieci e cinque, dieci e sei, dieci e sette. Fermò il cronometro: era davanti a un cancello di un condominio.
Due giorni dopo, era stato fatto un interrogatorio a tutti gli abitanti del condominio di via Dei Rossi. 
C'erano quattro appartamenti: nel primo abitava una giovane coppia; la donna era incinta. Nel secondo abitavano due signori di circa novant'anni, nel terzo due sorelle gemelle di venticinque anni e nel quarto un ragazzone che viveva da solo. Si dimostrarono tutti molto gentili e disponibili. Provarono tutti a riscrivere il biglietto su un foglio di carta; magari così si poteva riconoscere la calligrafia del biglietto. Quella dell’anziana signora ci assomigliava, ma non poteva essere concretamente lei. Beatrice ispezionò tutte le case. Il ragazzo sembrava molto teso, sosteneva di non trovare le chiavi di casa. Poi le trovò, invece. Beatrice entrò, perquisì la casa da cima a fondo, interrogò l’uomo di nuovo; lui si chiamava Joe Robin. Non aveva nulla da nascondere ed era un uomo perbene. Beatrice era convinta che le fosse sfuggito qualcosa, ma cosa? Aveva interrogato tutti e ispezionato le case. Cos'altro poteva fare? Ma certo! Avrebbe sorvegliato il condominio durante la notte! Oltre a quella principale, non c’erano altre porte, perciò avrebbe sorpreso il ladro. Montò una tenda con il consenso delle forze dell’ordine in strada, davanti al condominio. Passò una settimana in bianco. Tornò a casa e dopo una bella dormita suo marito le chiese “Problemi con il ladro? Nostra figlia Gemma è preoccupata per te.” Beatrice sospirò “Lo so è che devo trovare quel ladro, capisci?” “Se ti può essere utile: non tutti gli indizi sono sempre utili, alcuni sono lì per confondere.” “Credo che il guanto e il gessetto non c’entrino nulla.” Ragionò Beatrice “Coraggio, pensa.” Beatrice chiuse gli occhi e pensò a lungo. “Certo!” esclamò “Ho capito! Grazie mille! Sarà la mia ultima notte fuori.”
A mezzanotte una figura con il cappuccio in testa uscì dal condominio, correndo. Beatrice accese la torcia e lo seguì. “Fermo!” gridò. Erano vicini alla stazione dei treni, il malvivente aveva il quadro sottobraccio. Svegliati dalle grida dell’investigatrice, molte persone erano scese in strada a darle una mano, il postino corse davanti a tutti, saltò e prese l’uomo, che venne arrestato. Joe Robin, trentaquattro anni, nativo americano, voleva rivendere il quadro, ma era stato fermato una volta per tutte.

Serena Perissinotto IIAL

Giallo: ...di tutto per soldi



Era il 27 febbraio 2015 e quel giorno ci sarebbe stata una mostra d’arte. Il direttore del museo era andato a controllare che tutto fosse apposto mezz'ora prima, quando ancora nessuno era lì. Qualche minuto dopo sarebbe arrivata anche la segretaria per aiutarlo a sistemare le ultime cose. Appena arrivata indossava un cappotto lungo nero e dei guanti rosa. Tolse il cappotto, lo mise sull'attaccapanni e mise i guanti rosa in tasca quasi come se non volesse che qualcuno li vedesse e poi andò dal direttore che la aspettava in ufficio.
Arrivò l’ora dell’inizio della mostra (alle sette in punto della sera). Era già buio fuori, senza le luci accese non si sarebbe visto nulla. Stranamente le persone venute per visitare il museo erano poche, circa una decina. C’era una famiglia composta da cinque persone, una giovane ragazza che frequentava spesso il museo, due fratelli e una coppia di innamorati. Iniziarono il giro del museo con la segretaria che esponeva loro i quadri e il loro valore, ma ogni due minuti la giovane ragazza che frequentava spesso il museo la interrompeva per aggiungere qualcosa che lei non aveva detto. La segretaria (stranamente non ancora interrotta) stava finendo di “raccontare” il penultimo quadro, ma quasi nessuno la stava ascoltando… forse perché erano tutti ansiosi di arrivare all'ultimo, il più bello e costoso, “Notte stellata” di Van Gogh. Le persone stavano per dirigersi a vedere il quadro, quando saltò la luce per qualche minuto. Appena tornò la luce il quadro “Notte stellata” non c’era più. Le uniche persone presenti al museo erano ancora lì, tranne il direttore che era in ufficio, che, tornata la luce, andò a controllare che fosse tutto apposto e chiamò la polizia per il quadro. Appena arrivata, la polizia notò un particolare che poteva sembrare sospetto. Sotto la parete a cui era appeso il quadro c’era un biglietto con una rosa sopra, c’era scritto: “Una rosa rossa per un quadro blu”, la scrittura era quasi illeggibile, ma sicuramente il ladro l’aveva fatto per non farsi scoprire. Guardando attentamente i sospettati uno dei due fratelli disse: “Io sono Scarret, sono appassionato dei libri gialli e vi potrei aiutare a risolvere il caso, ad esempio, vedo che Edward, mio fratello ha un petalo di rosa sulla scarpa. Edward cercò di giustificarsi dicendo che poteva succedere a chiunque di loro, il ladro stava cercando di incastrarlo! Non c’erano impronte digitali, il ladro aveva sicuramente usato dei guanti. Scarret si guardò silenziosamente intorno, lì non c’era niente, allora provò ad andare a vedere all'entrata, magari lì era caduto un guanto proprio sotto il cappotto. Andando a vedere, notò che c’era un guanto rosa sopra la scrivania della segretaria del direttore. La segretaria disse che non sapeva come fosse finito lì quel guanto, lei l’aveva lasciato nel cappotto appena arrivata. "Stanno cercando di incastrarmi!" disse. La polizia non sapeva chi fosse il colpevole, sembravano tutti coinvolti a parte la coppia e la famiglia che lasciarono andare. La giovane ragazza preferirono trattenerla ancora. Non si sapeva chi fosse stato, quindi, in attesa di altri indizi, vietarono alle persone rimaste (i due fratelli, la segretaria, il direttore e la giovane ragazza) di lasciare la città. Dopo averglielo comunicato li lasciarono andare. Passarono giorni ma ancora nessun indizio era stato trovato. Dopo una settimana Scarret chiamò la polizia per dichiarare che Edward era scomparso ormai da un giorno e non rispondeva al telefono. Un mese dopo fu trovato in Francia che cercava di rivendere il quadro ad un prezzo più alto di ciò che vale (non che valesse poco!). L’aveva fatto perché aveva parenti molto ricchi che volevano lasciare tutta l’eredità a suo fratello perché Edward non era mai stato molto affidabile… ma il suo punto forte era sempre stata la tecnologia, infatti è grazie al suo potenziale che è riuscito a programmare un blackout di pochi minuti al museo e a sapere che il guanto era della segretaria guardando i filmati di sicurezza.
Così Edward venne arrestato e il quadro fu riportato al museo.

Sofia Girardi IIAL

mercoledì 8 gennaio 2020

La storia di Lea e Denise


La storia di Denise inizia a Milano, dove si trasferiscono il padre Carlo Cosco e la madre Lea Garofalo.

Lea rimase incinta di Denise a diciassette anni.
Carlo aveva deciso di trasferirsi a Milano, per gestire un traffico di droga... 
Lea capisce che quello non era l'ambiente dove voleva far crescere sua figlia.
Prima che Carlo venisse arrestato Lea dichiarò al marito il desiderio di andarsene, lui diventò furioso e iniziò a insultarla e a picchiarla. Carlo decise che la moglie sarebbe dovuta morire. 
Lea diventò una testimone di giustizia: iniziò così la sua fuga con Denise, che allora aveva quattro anni.
Un giorno però Lea decide di fidarsi del padre di Denise, per chiedergli dei soldi per far studiare la figlia e garantirle così un buon futuro.
Lea e Carlo si incontrano.
Carlo fa uccidere Lea e fa sciogliere il suo cadavere nell'acido: il corpo venne trovato un anno dopo.
Denise testimoniò contro suo padre: lui venne condannato all'ergastolo.
La ragazza entrò in un programma di protezione.
Nel 2013 si svolsero i funerali di Lea a Milano, dove è sepolta.
Denise salutò la madre in diretta telefonica, dicendo: " Se è successo tutto questo [...] è stato per il mio bene e non smetterò mai di ringraziarti. Ciao Mamma"

Silvia Fantinello e Mohamed Mtira (IIIAL)

martedì 7 gennaio 2020

Franca Viola: "Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare"

nata ad Alcamo il 9 gennaio 1948

Franca ha sempre descritto il gesto eroico con il quale rifiutò di sposare l'uomo che l'aveva rapita come una vicenda normale, come una cosa che andava semplicemente fatta.
Lei è stata la prima donna italiana a rifiutare il cosiddetto "matrimonio riparatore", in un mondo nel quale era considerato un diritto dell'uomo rapire, violentare una donna e poi "riparare" sposandola.
Solo 50 anni fa in Italia le donne subivano soprusi come questo.

A quindici anni Franca si fidanzò con Filippo Melodia, nipote di un potente boss mafioso. Quando il ragazzo venne arrestato, lei lo lasciò.
Filippo, tornato in libertà, decise di rapirla e le usò violenza.
Franca denunciò lo stupratore e Filippo finì in carcere per violenza carnale.
Dopo quella sentenza le donne italiane cominciarono ad ottenere giustizia per questo tipo di reato.

Gioia Abigail Zia e Lodovico Vio (IIIAL)


Teresa Mattei: "La cosa più importante della nostra vita è scegliere da che parte stare"

Genova, 1 febbraio 1921 – Usigliano, 12 marzo 2013

Aveva poco più di vent'anni quando, durante la Seconda Guerra Mondiale, divenne una combattente partigiana, prima come staffetta poi come comandante di compagnia.
Il suo nome di battaglia era "Chicchi".
Il padre era avvocato e dirigente di un partito di opposizione al fascismo, la madre era una linguista e il fratello un docente di chimica, iscritto al Partito Comunista Italiano.
Teresa era stata educata all'antifascismo e al libero pensiero.
Il suo primo grande dolore fu la morte del fratello, ucciso dai Nazisti.
Dopo la guerra, nel 1946 Teresa fu chiamata a partecipare all'Assemblea Costituente, che doveva dare vita alla nascente Costituzione. Al tempo aveva 25 anni.
Ancora oggi Teresa viene riconosciuta come la madre dell'articolo 3 della Costituzione, che afferma l'uguaglianza tra gli uomini.
Fu lei a suggerire la mimosa come simbolo della festa delle donne.
Nel 1947 rimase incinta di un uomo già sposato, lui voleva farla abortire; lei rifiutò e si proclamò "rappresentante nelle istituzioni delle ragazze madri".
Teresa se ne andò dal PCI, per dissenso con la linea politica del partito, che lei riteneva succube del Partito Comunista Sovietico.

Irene Dal Tin e Manuel Roman (IIIAL)